Interni alla struttura universitaria, i dottorandi di ricerca finiscono per costituire i terminali delle emergenze che scuotono attualmente l’area dei docenti e quella dei
ricercatori: dalla crescente impreparazione delle matricole, al monitoraggio dell’attività didattica delle singole cattedre, agli standard performativi che ogni laboratorio è tenuto
a realizzare. Quanto il circuito dei dottorandi è difeso da un tale sovraccarico che riguarda solo docenti e ricercatori e quanto, invece, è chiamato a fronteggiare tali
emergenze?
Il terzo concerne la vita quotidiana.
Spesso privi della possibilità di garantire una presenza costante all’interno dell’ateneo, i dottorandi finiscono per essere marginali nelle relazioni scientifiche interne a
quest’ultimo. Quanto l’esperienza culturale che dovrebbe essere al centro della loro attività, si sviluppa invece in un percorso solitario, nel quale l’interazione con il contesto
dei colleghi si rivela scarsamente significativa? E quanto una simile esperienza di relazione negata e di incontri significativi mai realizzati spinge i dottorandi all’esterno
dell’università, indirizzandoli in ambienti culturali collaterali, dove sembra loro di poter cogliere quella stessa esigenza di relazione significativa di fatto mancata?
Il quarto concerne l’attuale mutamento d’epoca.
L’Università italiana, al pari delle altre, coesiste da anni con una serie di emergenze che le sono esterne, ma che di fatto la travolgono. Dal processo di globalizzazione al
riscaldamento globale, dalla pandemia del Covid19 al conflitto russo-ucraino ed a quello israelo-palestinese, fino ad arrivare allo tsunami dell’Intelligenza Artificiale che rischia
di minare l’intero processo formativo, l’università è costantemente tormentata da un contesto che la condiziona. Quanto l’universo dei dottori di ricerca finisce con l’esserne
colpito e stravolto nella propria attività?
Il quinto concerne il futuro.
In un contesto così precario, solcato e ferito dalle emergenze continue, quanto la normale e fisiologica incertezza che ha sempre attraversato i livelli di studio più elevati, non
finisce per provocare degli stati di ansia inaggirabili che compromettono in modo considerevole ogni sereno percorso di ricerca? In particolar modo in quei percorsi di studio
che, staccati dall’universo produttivo e dalla ricerca tecnico-scientifica, possono contare solamente sulle carriere universitarie come futuro approdo?
Se ciascuno di questi aspetti indica una vistosa criticità, è doveroso recuperare le strade che riportino al dottorato ad essere un percorso di ricerca scientifica all’interno di
un’istituzione che lo legittimi e di una comunità che lo riconosca come il proprio futuro, cioè come la parte migliore di sé stessa.