NOVITA': SINTESI DEL CONVEGNO 2018 a Silvi Marina

Sintesi degli interventi dei relatori e della discussione al convegno

(a cura della redazione di Universitas/University )

 

“Ad Alterum, ovvero della relazione’’

Come tutto s'intesse nel gran Tutto e ogni cosa nell'altra opera e vive’ (Goethe, Faust)

 

Silvi Marina (TE), 8-10 febbraio2018

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Noi impariamo le parole non i significati, ma imparando le parole riusciamo ad afferrarne i significati e solo quando si riesce a rielaborare un tema e a formularlo con le proprie parole lo si è fatto proprio e compreso. Comprendere il significato della parola “relazione” ci permette di ricostruire la rete storica di rapporti che l’ha generata, ci fa capire il legame tra un elemento e ciò che è “altro”: è un movimento, un andare e un riportare indietro, per scoprire come ogni cosa, fin dalle origini del tempo (cioè fin dal più profondo del senso), si rapporta con il tutto.
Nell’universo materiale, governato dalle leggi fisiche, il reale si dà sempre in diversi livelli di complessità. A un livello semplice, le molecole hanno struttura e caratteristiche definite che non dipendono dalle loro mutue interazioni e i materiali da esse formati hanno proprietà totalmente derivabili dalle proprietà delle singole molecole. Tuttavia, man mano che le molecole diventano più complesse, esse acquistano flessibilità e capacità di interagire ed emergono delle entità collettive con proprietà/qualità nuove, originali, non deducibili dalle proprietà dei componenti. Una volta generate poi queste “assemblee molecolari’’ acquistano dinamiche proprie che retroagiscono causalmente sui componenti determinando la struttura delle singole molecole e reclutandone di nuove per la costruzione di ulteriori assemblee. Si realizza così nella materia inanimata una tendenza spontanea a una “cooperazione costruttiva’’ in quanto fa evolvere, da interattori che iniziano a cooperare, nuovi livelli organizzativi, nuove specializzazioni e nuove diversità.
Questo fenomeno è presente a tutti i livelli negli organismi viventi, dal livello molecolare al livello di popolazioni: i geni cooperano tra loro nel genoma, i genomi cooperano tra loro nelle cellule, le cellule nei tessuti, gli organi negli organismi, gli organismi nelle popolazioni.
E’ evidente tuttavia che l’interazione tra i diversi componenti non è sufficiente perché si abbia cooperazione: l’interazione potrebbe essere competitiva piuttosto che cooperativa. D’altra parte, a partire dalla pubblicazione “Sull’origine delle specie per mezzo della selezione naturale” di Darwin (1859) i rapporti competitivi, a livello intra e interspecifico, sono considerati essenziali nel determinare l’evoluzione delle comunità degli organismi viventi. Il concetto di competizione è diventato talmente pervasivo da rappresentare la chiave di lettura unitaria di tutti i fenomeni biologici a qualunque livello di organizzazione, da quello cellulare a quello ecosistemico. Tuttavia, negli organismi viventi si assiste frequentemente al manifestarsi di fenomeni sia collaborativi, cioè di azioni di più individui in vista di un fine comune, sia cooperativi, dove potenziali competitori scelgono di adottare nuove strategie di vita aiutandosi reciprocamente, comportamenti che evolvono da rapporti inizialmente competitivi. E’proprio a livello dell’interazione tra organismi, cioè nei comportamenti, che la dialettica competizione/cooperazione interroga più profondamente la
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natura profonda del fenomeno vivente, uomo compreso. Comportamenti cooperativi sono presenti in diversa misura nelle comunità biologiche lungo tutta la storia evolutiva: si pensi per esempio a tutte le innumerevoli forme di ‘colonialismo’, simbiosi, mutualismi (associazioni tra specie diverse dove una specie fornisce cibo a un’altra specie in cambio di protezione da predatori o da condizioni meteorologiche avverse, specie che nidificano in stretta associazione difendendo il nido congiuntamente e spartendo il cibo, formazione di gruppi plurispecifici per una maggiore efficienza di approvvigionamento del cibo), fino a raggiungere i livelli più elevati di organizzazione sociale negli invertebrati coloniali, negli insetti e nei mammiferi non umani.
Noi uomini moderni siamo una specie recente (circa 200.000 anni fa), profondamente omogenea dal punto di vista evolutivo, una specie che non ha avuto il tempo per differenziarsi e che manifesta anche una profonda unità e fermezza psichica intraspecifica che attraversa le diverse culture.
La specie umana ha in comune con gli animali paura, felicità, cautela, depressione e altre emozioni, ma è tuttavia unica per un’infinità di caratteri: per grandezza e complessità del cervello, per cure parentali lunghe, per cultura trasferita in elevatissimo grado, per linguaggio che contribuisce a sviluppare il cervello, per coscienza di sé e pensiero, per intelligenza, superiore di molti ordini di grandezza a quella di altri animali ‘intelligenti’.
Ma non è questa la sola unicità. Esiste anche l’unicità dell’individuo. L’adattamento del singolo uomo al livello basale (di specie) della natura umana sembra differire da individuo a individuo a tutti i livelli, anatomici, fisiologici, neurofisiologici, comportamentali, cioè da persona a persona. Ciascun individuo è unico entro la specie: lo testimoniano le prove dall’analisi del DNA (anche i gemelli monozigoti sono diversi), così come le prove che emergono dallo studio dello sviluppo del cervello: le diverse aree del cervello si determinano in modo individuo-specifico. Inoltre, pur essendo dotati di aree cerebrali differenziate, di moduli cerebrali diversi e di moltissimi circuiti neuronali differenti, ognuno di noi si percepisce come profondamente unitario e unico, individuale, indivisibile, un io consapevole di sé.
Allo stesso tempo la nostra specie è la più sociale tra tutte le specie esistenti: noi siamo discendenti di una lunga serie di antenati per i quali la vita era obbligatoriamente gregaria e che ha sviluppato molti comportamenti cooperativi: abbiamo però spinto questa tendenza agli estremi. In altri termini nella nostra specie, più che i comportamenti effettivi che possono essere presenti anche nelle altre specie (anche le formiche spartiscono il cibo), ciò che colpisce sono le capacità che quei comportamenti sottendono: alti livelli di tolleranza, sensibilità verso i bisogni degli altri, capacità di compassione ed empatia, altruismo (cioè comportamenti che hanno un costo per chi lo compie e un beneficio per altri e che implicano intenzionalità).
Ma qual è allora la nostra vera unicità biologica, la nostra singolarità? Essa sta nel fatto che le nostre menti (e quindi le nostre persone) sono costruite per essere sociali e cooperative (io/tu, unità duale). Nessuna altra specie ha praticato questo sentiero evolutivo così a fondo.
Le forze fondamentali all’opera nell’evoluzione quindi non sono solo la mutazione genetica (cambiamenti improvvisi e imprevisti a carico delle informazioni genetiche) e la competizione, che certamente operano, ma non ne sono gli unici motori: occorre infatti osservare come la cooperazione sia una potente forza costruttiva che genera nuovi livelli organizzativi, nuove specializzazioni, nuova diversità biologica.
Questo processo senza fine, all’apogeo attuale del suo percorso, genera un vivente, l’essere umano, che non può dire una sola parola, non può compiere un solo atto senza differenziarsi da ciò che non è lui, che afferma il proprio “io” rispetto a tutto quanto non è sé. Ma allo stesso tempo, questo principio che muove l’io non può prescindere dall’altro, dal “tu”: l’io si percepisce incompleto, mancante, bisognoso del tu, di un altro che lo completi, che lo assicuri, che lo ami fino in fondo. E’ da questo bisogno che l’uomo è spinto ad andare continuamente oltre, oltre da se stesso, oltre dai suoi limiti biologici e tecnici.
Ma anche se l’uomo antropologicamente ha bisogno della relazione, è l’interpretazione della relazione stessa che ne condiziona di fatto l’esperienza. Oggi la modernità si caratterizza per una interpretazione individualistica del soggetto da cui deriva una concezione strumentale della
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relazione: si fa commercio delle relazioni (come testimoniano tanti esempi, vedi i professori universitari!), in quanto esse non hanno più a che fare con l’identità della persona. Si tratta l’altro come mezzo, non come fine. La statualità moderna nasce con l’idea di avere a che fare con soggetti individuali non con comunità di persone in relazione tra loro. Questa concezione invade l’economia, nasce il liberalismo, la sovranità del proprietario e più recentemente diventa individualismo libertario di massa: il soggetto non è più il proprietario di se stesso, ma si desostanzializza, diventa un fascio di relazioni inconsistenti. Il soggetto è solo volontà di libertà, autoreferenziale, autonomo: io sono io, sono una tautologia.
Tuttavia è solo il riconoscimento reciproco che rigenera la relazione tra gli uomini. Il riconoscimento di per sè non genera l’uomo perché l’uomo è già costituito fin dall’origine, ma lo istituisce, lo riconosce, lo fa esistere (si pensi all’anagrafe): è l’azione di un altro soggetto che ti mette in movimento, ti fa divenire sé stesso (un bambino che non è riconosciuto, è ridotto nelle sua capacità di crescita); nessuno può realizzare la sua identità umana se non è riconosciuto da un altro.
Ne consegue che razionalità e libertà umana esistono solo in atto, devono essere attività in atto e quindi coscienti di sé, non possono solo trovarsi a ‘essere’. Io prendo coscienza di me stesso attraverso l’atto di un altro, un impulso dall’esterno, un invito da parte di un altro, un’esortazione a divenire uomo, un’iniziazione alla libera attività spontanea, cioè attraverso ciò che chiamiamo educazione: tutti devono essere educati a diventare uomini. Ma è possibile che un altro intervenga nel mio io senza che io ne diventi suo prigioniero o che il suo intervento sia inefficace? Che tipo di relazione ci vuole perché si possa restare se stessi in una relazione con un altro? E’ necessario un movimento che va e torna indietro, dove ciascuno resta sé stesso, una relazione comunicativa, partecipativa, che è insieme unità e differenza, qualcosa da curare, coltivare. La buona relazione è quella che fa sì che l’altro diventi capace di relazione.
Ma la relazione, che è sempre terza tra i due, come si gioca, che ruolo ha, a livello del sociale, che interesse ha per la società? Oggi la cultura e la società stanno andando sempre di più verso il ‘relazionale’, spinte a ciò dalla rivoluzione digitale, da internet, dalla globalizzazione, dai social media, dall’intelligenza artificiale, ma il vero problema è distinguere tra il relazionale e il relazionismo.
Il relazionismo, che domina nella cultura anglossassone, intende le relazioni come pura metodologia che annulla le sostanze, nega l’ontologia sociale della relazione.
Il paradigma relazionale si fonda invece su un’ontologia che non annulla le sostanze ma considera l’ontologia stratificata, cioè considera la realtà fatta da strati diversi, ciascuno con una propria realtà; quindi le relazioni non annullano le sostanze, ma sostanze e relazioni sono co-principi della realtà e le relazioni, al pari delle sostanze, hanno una realtà propria.
Ciò implica che all’inizio di ogni fenomeno, di ogni realtà che vediamo, dal livello dei fenomeni naturali a quello dei fenomeni sociali c’è la relazione, cioè ciò che esiste viene all’esistenza attraverso la relazione perché è la relazione stessa che genera la realtà. Gli elementi che costituiscono la realtà sono esplorati, capiti, trovano la loro funzione attraverso la relazione. Per comprendere questa concezione si può rifarsi alla concezione cristiana: per i cristiani l’Universo è stato creato da Dio che è Trinità e la Trinità è relazione per cui tutto ciò che esiste porta l’impronta trinitaria, cioè è un paradigma relazionale.
Dal punto di vista sociologico cosa significa questo paradigma relazionale? Significa che l’unità di analisi sociologica non è l’individuo ma è la relazione, allo stesso modo che il livello basale, minimo della realtà non è l’atomo ma la relazione tra essi. La persona stessa è istituita, prende forma relazionalmente. La relazione è una realtà, non la vediamo ma è, esiste, per cui tutte le realtà sono relazionali: l’amore, per esempio, non è un sentimento è una relazione, è il bene relazionale tra due sposi, un bene in sé, ha un esistenza in sé dove tutti e due i partner hanno da guadagnare. Cos’è allora il bene relazionale? E’ una realtà che opera a tutti i livelli della natura, dal livello subatomico a quello umano, ma proprio perché la realtà è stratificata, man mano che aumenta la
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complessità, anche il paradigma relazionale diventa sempre meno deterministico, acquista caratteristiche proprie per ogni livello.
A livello umano il bene relazionale è un genere di bene comune che dipende dalle relazioni messe in atto dai soggetti l’uno verso l’altro e può essere fruito solo se essi si orientano di conseguenza. E’ quindi un bene comune, ma non nel senso che è un bene pubblico, collettivo, materiale, di cui tutti possono fruire, ma è un tipo di bene che è prodotto da un gruppo di soggetti che si orientano uno verso l’altro reciprocamente generando un bene di cui tutti fruiscono senza che questo bene sia di nessuno, non è cioè privatizzabile: è un bene comune costituito da relazioni, non quindi da alcunché di materiale, altrimenti sarebbe un bene pubblico.
Questi beni si creano non perché conviene agli individui produrli a seguito di un accordo di tipo contrattuale, ma in quanto all’inizio del bene relazionale c’è un riconoscimento, un dono, non una scelta razionale. I beni relazionali consistono quindi di relazioni sociali che nascono non per vantaggi individuali ottenuti da aggregazioni basate su scelte razionali, non sono quindi cose materiali, né idee, né prestazioni: occorre invece che i vantaggi individuali siano ottenuti puntando sul bene oggettivo interpersonale (si pensi al singolo orchestrale che si integra con tutta l’orchestra mirando alla performance di tutta la compagine). I beni relazionali si creano solo su basi libere, responsabili e non mercantili, tra i soggetti coinvolti quando gli stessi partecipanti che li fruiscono e li producono assieme non sono anonimi, hanno motivazioni non strumentali, piena condivisione della relazione, per cui il bene emerge nel tempo come elemento terzo che eccede i contributi dei soggetti coinvolti, è un bene emergente.
Non è possibile quindi ricondurre il bene relazionale all’agire individuale, approccio assai utilizzato dagli economisti che considerano i fatti economici una dimensione staccabile da tutto il resto e basata sostanzialmente sull’individualismo metodologico, l’autointeresse, l’interesse personale. Questa concezione ha radici antiche “Non è dalla benevolenza del macellaio.... che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla cura che esso ha per il suo interesse” (A. Smith, 1776), ripreso dal premio Nobel Stigler (1981): “...viviamo in un mondo di individui ragionevolmente ben informati che agiscono intelligentemente ricercando il proprio autointeresse...non c’è bisogno di rifarsi a principi etici, valori, norme condivise che vadano oltre il rispetto della scelta immediata dell’autointeresse”. I comportamenti economici sono visti cioè in totale isolamento da altri fattori quali il contesto sociale e il bene comune.
Ma questa concezione non è vera (vedi il premio Nobel A. Sen, 1998) per l’impossibilità di una perfetta conoscenza dei risultati ultimi e futuri (per esempio gli effetti ambientali, le diseguaglianze che si generano, ecc.) delle proprie e altrui azioni, come ampiamente dimostrato dalla recente crisi economica causata dalla fede in un’economia di mercato pura.
Se dunque un contesto ideale di riferimento è necessario, resta da capire come questo si forma e, se si è sfaldato, come si può rigenerarlo. A ben guardare, ogni atto economico nasce da un contesto di aspettative, desideri, relazioni ampio e profondo: si compra il pane non per fare un contratto con il fornaio, ma per nutrire la famiglia, perché voglio che ci sia una vita buona, per loro, per gli amici, per la comunità. E’ questo il contesto profondo e personale da cui nasce l’atto economico che non può essere disgiunto dal percepito valore del vivere per sé e per gli altri e ha bisogno per affermarsi di un cammino educativo che è un tessuto di relazioni. Qual è l’alternativa a questo cammino educativo, al riprendere in mano un contesto culturale, sociale, educato, tale che tiene conto dell’altro, ha interesse al cammino dell’altro come al proprio? L’alternativa è essere governati, messi nelle mani di uno stato o di un ceto dominante: da qui alla dittatura c’è solo un passo.
Il cammino educativo che porta al risveglio dell’io inizia solitamente in un incontro e in un’amicizia, una relazionalità che accompagna questo risveglio nella sua necessaria e continua maturazione. Per definire questo cammino non possiamo usare il linguaggio economico separatista (benessere, welfare) ma un termine più ampio: sviluppo umano.